“Fine Impero” di Giuseppe Genna

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di Alessandro Garigliano

Perché muoiono i bambini?

L’ouverture del romanzo “Fine Impero” di Giuseppe Genna è un corteo funebre. Non si ha però la descrizione di un dramma, ma di una tragedia: il morto è una bambina di dieci mesi. Al cimitero il tempo si condensa raggelato. Il dolore si alza con tutta la sua maestà e pietrifica l’essere umano. Il padre e la madre sono quasi dei, chiunque si avvicini loro non riesce ad avere un contatto, ma solo un conflitto, la relazione si trasforma in una lotta, amici e parenti si ritrovano – come Giacobbe dopo lo scontro con l’Angelo – sciancati, ma senza benedizione.

Perché muoiono i bambini? si domanda il romanzo dostoevskijanamente.

Il protagonista è il padre della bambina, uno scrittore fallito, figlio di un padre fallito che tentò il suicidio, e con un tentativo di suicidio alle spalle anch’egli. Dopo la perdita della bambina, il protagonista sembra perdersi nel mondo, si smarrisce cementato nel proprio lutto, incapace di elaborarlo, vive: Attraverso un limbo tossico indifferente a tutto se non ai ricordi, attraverso la nube della nonconoscenza. Ma come dovrebbe essere metabolizzata questo tipo di perdita? In che modo inumano dovrebbe essere fatta sedimentare una scomparsa che ha dimensioni sacre? Quale analisi interiore potrebbe salvare un uomo dall’abisso?

Perché muoiono i bambini? è una domanda che rintocca a morto durante la storia.

Nel nostro pianeta, che ha origine da un’esplosione, per miliardi di anni sono conflagrate  permanenti calamità naturali, glaciazioni e smottamenti di crosta terrestre, inabissamenti di lande e desertificazioni di zone immense, sono caduti imperi e sono trapassate genti e linguaggi.

Il mondo contemporaneo è collassato. Il padre dopo il funerale sprofonda in una nekuia attraverso un presente costellato di ossa, un presente che è presente assoluto – come in “Cosmopolis” di Don DeLillo – dentro il quale sembra che tutto transiti e crolli a cascata verso il futuro: un presente che è già futuro. Un Tempo che ansima e accelera il respiro angosciato come fosse un animale morente e un tempo interiore che implode depresso per il lutto subito. Nessuna bava di eredità viene tramandata, muore l’erede al padre e muore la trasmissione della testimonianza per il genere umano.

Come in tutti gli inferni anche in questo chi viaggia nell’oltretomba viene guidato da uno psicopompo, un traghettatore di anime. Ma l’anomalia dell’inferno che viviamo è quella di essere compulsivamente in festa, quindi a illustrare il mondo dei morti deve essere una figura carnevalesca: si chiama Zio Bubba: una sorta di satrapo, un cerimoniere del nulla. Lo Zio Bubba progetta palinsesti, decide le sorti delle anime del morto mondo dello spettacolo. Ha la forma di un bambino sformato ed è l’esaltazione infantile del divertimento senza limiti. Proclama le regole per trasgredirle, abolisce la Legge, il confine, offrendo un godimento infinito, esaltando la dissipazione che consuma incendiando le vite: la morte non terrorizza più con la falce, adesso promette beni infiniti.

Questa parte di esistenza è attraversata da una luce diffusa che trapassa i corpi e le cose, gli eventi, che esalta la trasparenza abbagliando e infine accecando, lasciando che il senso scompaia.

Perché muoiono i bambini?

Chi narra racconta la storia con una lingua che prova a trattenere le macerie, sforzandosi di analizzare la catastrofe in ogni suo infimo dettaglio; e nel riflettere il collasso la lingua si frantuma, diramandosi in scaglie di termini tecnici o peregrini, di neoconiazioni, di lemmi sforzati che deformano, e urlano: è una lingua crepata.

Il romanzo contiene anche note lunghissime, che sembrano un’accurata ricostruzione filologica di questo nostro regno circense. Vengono riportati i dettagli più fulgidi su esistenze recenti e dimenticate, su figure esemplari di un’epoca come André The Giant o Lucio Flauto. Probabilmente perché: A fine impero è possibile descrivere soltanto. Non rappresentare, non troppo fingere.

Vanno in scena le immagini sotto i riflettori, sfila una Morte che serpeggia investita di una suprema forma di sacralità, ma che non si sublima mai, non trascende ciò che naufraga festoso e transitorio, è sempre una Morte che immane mascherando i corpi e le cose: maschere indistinguibili oramai dai volti segnati a fuoco con ghigni luminosamente macabri.

Perché muoiono i bambini? nonostante tutto, perché?

Il padre non può non contaminarsi seguendo lo Zio Bubba, non riesce a sopravvivere puro nel suo dolore, è costretto a diventare complice di una delle oscenità ostentate di continuo. Lo Zio Bubba, cioè, lo convince a fingersi amico di una modella durante la degenza in ospedale di questa per overdose, perché la modella kazaka è minorenne e si trascina dietro chissà quante colpe e quali; se scoperta farebbe saltare in aria il regno di Zio Bubba – non l’intero circo dello spettacolo, attenzione, ma l’impero di oro falso del satrapo di gomma.

Eppure il padre sembra ancorato a una condizione diversa rispetto a questo presente assoluto, lo assale il passato costantemente. Che sia in qualche modo salvato dal fuoco amico dei ricordi, dal proprio dolore? Come la morte, il dolore è un fenomeno risignificato nel romanzo, tanto quella è zavorrata da un’immanenza quasi fisica, quanto il dolore sembra avere una forza spirituale. Il lutto per la perdita della bambina e la descrizione del corpo di Stefano Cucchi sono momenti in cui si trema sconvolti per la commozione: il dolore aleggia sui campi di vita devastati e sembra – non vuole essere un paradosso, ma una realtà affermata – l’unico fenomeno che radica nella vita.

E poi ciclicamente dall’eternità calano banchi di orrore.

Perché muoiono i bambini.

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