Don Chisciotte, la Recherche, mia moglie e mia figlia

antonio-saura-quixoteQuesto articolo è apparso su minimaetmoralia

di Alessandro Garigliano

L’Etna sbuffa terra nera. Il balcone si riempie di cenere lavica. Una grandine monotona di pietre cade fitta dal cielo. Rimango a guardare.

Don Chisciotte, invece, lascia che a guidarlo sia il suo cavallo, Ronzinante. Si avventura lungo la Spagna e non riesce a dare consistenza alle cose e nemmeno ai nomi; il presente è solo immaginazione. Non vuole avere nessun contatto con gli oggetti comuni, quando vede il bacile del barbiere, l’oggetto non esiste fino a quando non viene rinominato, ricreato, fino a quando non diventa l’elmo di Mambrino – l’elmo d’oro meraviglioso che costò così caro a Sacripante. Il bacile è intangibile, è la realtà: l’esistenza che si fa cenere. Sempre, con Cervantes, la realtà ha la stessa inutilità malinconica dei gesti quotidiani, immemorabili. L’invenzione, al contrario, si svolge nel racconto attraverso una struttura talmente solida da schiacciare e mortificare la logica delle cose concrete.

Il capolavoro di Cervantes, in questo, mi ricorda Alla ricerca del tempo perduto. Avevo avuto, infatti, questa stessa impressione leggendo Proust: la realtà, nella Recherche, esisteva solo come pretesto. L’intera biografia del Narratore con tutti gli eventi e i personaggi si insufflava di senso solo attraverso la trasformazione artistica che ne faceva l’autore. Quel tempo e quegli eventi sarebbero giaciuti secchi e inerti non, come sento troppo spesso dire, se qualcuno non li avesse raccontati – perché se qualcuno li avesse raccontati in maniera veristica, il risultato sarebbe stato identico – sarebbero stati mortificati se Proust non ne avesse manipolate le forme, slabbrando i caratteri, inondando ogni singolo pezzo della materia della scrittura di stratificazioni di senso. Per esempio, la celeberrima madeleine, uno dei medium che serve a conquistare il tempo perduto, non è un semplice dolce francese – nel qual caso imploderebbe umile come solo strumento della memoria involontaria del Narratore – ha la forma della conchiglia di San Giacomo, conchiglia cucita nel Medioevo negli abiti di chi conquistava il Santo Sepolcro. Come con l’elmo di Mambrino, anche qui, la realtà, se non si mitizza non solo si pietrifica, ma come Medusa reifica chi la interpreta. Così il quotidiano viene minato attraverso l’invenzione o, meglio, la creazione, facendo esplodere, squadernando sensi, interpretazioni nuove.

Insomma, in Cervantes e in Proust, la cronaca collassa come fosse una cosa depressa e la letteratura ne è in qualche modo la psicoanalista, che la rianima con la potenza di una fantasia cognitiva.

Mentre cerco di comporre tali analisi, la realtà, sembra volere dire la sua, anziché giacere imbavagliata nel sarcofago della sua mortalità, si rivolta come una mummia con il garrire di bende scomposte. È mia moglie. Mentre scrivo mi chiama ripetutamente, insiste dicendo che occorre fare la spesa, comprare la carne prima che il salumiere chiuda. S’è fatta l’ora, sembra dire. Mi sorprende questa portentosa metafora, davvero. Oltre lo studio, la vita. Da oltre lo studio irrompe l’urgenza delle cose banali: nell’orario di chiusura del commerciante, nel bisogno fisiologico della famiglia il tempo si contrae, si solidifica, lo spazio si chiude claustrofobico: dio muore.

All’inizio penso ostinato che la famiglia stia mettendo in scena in tempo reale, mentre scrivo il pezzo, il conflitto tra mortalità e immortalità, tra limite e infinito, tra necessità e possibile. E mi pare un’ovvietà pensare che l’arte abbia sempre trionfato non avendo confini, articolandosi nei secoli con la forza di metamorfosi fantastiche, strutturandosi in forme prometeiche che non hanno permesso alla verità di cristallizzarsi nonostante l’evidenza abbagliante.

Eppure, rifletto, la realtà, non è solo fare la spesa, esercitare un mestiere, pagare le rate. La realtà è anche guerra di popoli, evoluzioni di specie, donne che partoriscono. Insomma, pur essendo mera cronaca la realtà può essere epica. Ho adesso l’impressione che anche quando non è rielaborata, l’orchestrazione quotidiana di atti può avere una bellezza che trafora se stessa e apre a illuminazioni immense. Leggo un libro di Storia o un libro di Antropologia o di Biologia, i fatti in sé stupiscono, naturalmente.

Ora non è solo mia moglie che chiama, si aggiunge anche mia figlia, e io mi sento assediato dentro lo studio. Non voglio abbandonare Proust e Cervantes. Sono convinto, nonostante tutto, che l’arte, quell’arte, non abbia paragoni con la vita là fuori, che là fuori vi alberghi umiliante il gesto scomposto, la sequenza di atti imprecisi, l’eloquio smozzicato e ciangottante. E non parlo solo degli altri, degli esercenti, includo mia moglie, mia figlia, me stesso. Chiunque se ne renda partecipe verrà masticato da un coro distonico e asincrono. Questo è il punto (mentre adesso sento le tartarughe raspare la porta fameliche, puntuali, come sempre, in cerca della lattuga) che l’esistenza ordinaria, per quanto a volte grandiosa, si dipana, anzi no, si ingarbuglia e si annoda nel tempo senza alcun senso, si mostra astratta, schifosa, senza stacchi perfetti e senza montaggio. E invece in quei libri sono stati fondati mondi con ecosistemi impeccabili (niente a che vedere però con stereotipati equilibrismi o armonie, non esiste il feticcio della perfezione, ma rivoluzioni caotiche di strutture mai dome, di lingue increate che si forgiano durante la composizione del testo)…

Basta! Alla fine mi metto a gridare spalancando la porta. C’è sulla soglia mia figlia, bellissima, che si liscia in capelli all’insù. Non un essere umano, ma una creatura, un concentrato di possibilità, un infante con un equilibrio fisico unico, un modo di piangere, di ridere, di fare i capricci, un essere biologico che piscia e che caca al pari di un microcosmo impeccabile, con un ecosistema tra le proprie funzioni che non ha sbavature, e un meccanismo sbilenco che agisce a tentoni, irruento, che danza cadendo ignorando il buon senso, una fiamma che apprende incendiando le cose, trascendendo la logica, nominando i mondi come non fossero mai stati chiamati, un’opera d’arte…

Ma crescerà. Il Don Chisciotte e la Recherche per fortuna non più.

Un pensiero su “Don Chisciotte, la Recherche, mia moglie e mia figlia

  1. Caro Alessandro,
    la realtà della vacanza mi permette di leggerti con più calma e subito, appena finito, sono contento di poterti chiedere “ma quante realtà”?. Non, quindi, finzione e realtà, letteratura e realtà, ma realtà della finzione e dell’immaginazione. Un Don Chisciotte realmente esistito sarebbe stato un qualsiasi essere umano in odio della realtà, presuntuoso al punto da volere costruire la sua di realtà, unica e indiscutibile. E forse un pò di questa presunzione è necessaria all’artista come allo scienziato; quella presunzione e quell’odio, o quella nostalgia antica non riconosciuta, che vorrebbero tenerci al chiuso delle nostre stanze, intenti a ricreare il mondo, interno ed esterno.
    Un Don Chisciotte nel pensiero di Cervantes è l’infinita descrizione, offerta al mondo, della prodigiosa, cavalleresca avventura della fantasia umana, capace di creare infinite realtà possibili.
    Un abbraccio a te e Angela e un bacio alla vostra bellissima figlia.
    A presto
    Nicola

Lascia un commento