Storia clinica in una comunità terapeutica per psicotici

A tutti gli operatori che ci hanno creduto

di Vilfredo Corrao

Alessandro è nato il 04 Febbraio del 2010 all’età di quarantasette anni. Era da tempo che aspettavo il giorno in cui avremmo avuto la forza, tutti gli operatori della comunità terapeutica per psicotici, di farlo nascere nuovamente e di farci carico con coraggio e pazienza di tutta la sua distruttività.

Alessandro è nato il giorno in cui ci siamo decisi, in beffa a tutte le tesi compassionevoli sulla cura della malattia mentale, a lasciarlo nella propria stanza, senza nessuno dei suoi tanto amati oggetti (Lettore CD, televisore, tamburello, chitarra etc.), totalmente nudo su un materasso senza rete e senza lenzuola, a urlare la sua disperazione.

Da circa due anni Alessandro è ricoverato presso la nostra comunità, espulso da quella in cui era precedentemente ospite, poiché il suo direttore sanitario, avendo deciso di ripulire la struttura dagli elementi eccessivamente disturbanti, non era più disposto a tollerarne le continue crisi rabbiose.

Alessandro è arrivato nella nostra comunità perché l’amministrazione ne ha imposto l’inserimento per la necessità di far quadrare i bilanci; altrimenti anche noi, l’équipe terapeutica, ci saremmo rifiutati di accoglierlo.

Dal giorno del ricovero la sua storia clinica è una continua alternanza di periodi in cui è allegro, affettuoso e molto contento di stare insieme a ricoverati e operatori, a momenti in cui, spesso per reazione ad un rifiuto, si infuria e inizia a distruggere tutto ciò che gli passa davanti e a malmenare, a volte gravemente, chi si trova per la sua strada. In questi due anni il paziente si è reso responsabile della distruzione di diversi lavandini, gabinetti, letti, porte, citofoni a muro, telefoni della comunità, e perfino, del calcetto balilla con cui gli ospiti trascorrevano i pomeriggi. Ha inoltre provocato ferite più o meno gravi a operatori e pazienti, ha rovinato i momenti del pranzo, lanciando continuamente pietanze addosso agli altri, ha torturato il sonno di tutti urlando fino a notte fonda, quando, ormai stremato, riusciva ad addormentarsi. Tutti lo temono e tutti ne stanno lontani, per evitare di prendersi qualche sberla, un oggetto o una minestra in testa.

A fronte di tutto ciò, per circa due anni, è mancata una risposta integrata, unitaria e pensata della struttura. Qualcuno, agendo autonomamente, gli sequestrava la radio (l’oggetto più amato dal paziente, con cui ascolta la sua adorata musica), per restituirla poco dopo, quando Alessandro iniziava a rompere tutto. Qualcun altro cercava di calmarlo con atteggiamenti gentili o ammiccanti. Alcuni, infine, reagivano alle crisi minacciando il paziente di ritorsioni, non disdegnando di passare talvolta ai fatti per difendere la propria incolumità.

Per circa due anni siamo così rimasti impotenti ad osservare la distruzione della sua stanza, di parte della struttura e a difenderci da possibili agguati. Per circa due anni abbiamo temuto le sue esplosioni rabbiose e abbiamo cercato di tenerlo buono, accontentandolo in tutti i modi. Per due lunghi anni abbiamo sopportato di tutto, difendendoci alla meno peggio e cercando di attenuare il più possibile l’impatto della sua violenza.

Per circa due anni…. Fino a quando, un giorno, tutti gli operatori della struttura, trovandosi con le spalle al muro, hanno deciso di voltare pagina. Hanno così partecipato ad una riunione indetta da me, lo psicologo, per capire cosa si poteva fare per cambiare il paziente. Quel giorno hanno smesso di rivolgersi a me esclusivamente per chiedere di buttarlo fuori dalla comunità e sentirsi ripetere il mio netto rifiuto. Dovevamo provare, in maniera appassionata, a cambiare Alessandro, non a eliminarlo dalla comunità per eliminare il problema, rendendoci anche noi responsabili del nomadismo del paziente tra le varie strutture.

Così quel giorno è iniziato l’intervento. Siamo saliti tutti insieme: équipe, infermieri, animatori e ausiliarie nella stanza del paziente per privarlo di tutto ciò che conservava di superfluo, vecchio e sporco, per liberarlo dalla confusione in cui aveva ridotto il suo ambiente. Abbiamo così cominciato a gettare nella spazzatura, in sua presenza, numerosi fazzoletti sporchi di muco, spugne per la doccia impregnate di cacca, tovaglie da bagno e accappatoi pisciati, tovaglioli lerci, carta igienica già usata. L’operazione di pulizia e di distinzione del pulito dallo sporco, del buono dal cattivo e la liberazione dal superfluo, ha ovviamente scatenato la rabbia del paziente che ha cominciato a scagliare ogni cosa della stanza verso chiunque. Siamo andati avanti decisi e abbiamo sequestrato ogni oggetto che poteva essere lanciato pericolosamente contro qualcuno e, per tutta risposta, il paziente ha iniziato a colpirci coi suoi vestiti. Scarpe, cintura, pantaloni, perfino indumenti intimi, sono diventati armi per difendersi dagli aguzzini che lo stavano spogliando di ogni bene. Per costringerlo a calmarsi, abbiamo allora sequestrato le cose a cui tiene maggiormente: lettore CD e televisore, oggetti indispensabili per trascorrere qualche ora tra l’adorata musica e le trasmissioni televisive preferite. E così, eccoci arrivati all’immagine iniziale di questa relazione: nel giro di poche ore il paziente era ridotto nudo, su un materasso a  terra (la rete e i piedi del letto erano minacciosi strumenti di attacco), senza più niente, niente, nella propria stanza. Nudo in una stanza nuda.

Per tre giorni, tre lunghissimi giorni per ricoverati e operatori, Alessandro ha continuato a rispondere ad una iniziativa così nuova e radicale, ad una risposta dell’ambiente così decisa e condivisa, nella maniera più disperata possibile. Per tre giorni Alessandro non riusciva a credere alla propria impotenza rispetto a quanto stava accadendo; per tre giorni ha tentato in tutti i modi di illudersi di essere ancora onnipotente e che il suo desiderio, la sua rabbia, la sua violenza e la sua forza, avrebbero fatto riapparire i suoi oggetti, così come accaduto in tutte le altre occasioni precedenti e così come sempre accadeva nell’infanzia con la madre, che, come riferitoci da lei stessa, non gli ha mai saputo dire di no. Madre che ancora oggi subisce le aggressioni del figlio quando non riesce a soddisfare tutte le sue richieste.

Per tre giorni Alessandro ha urlato la propria rabbia e la propria disperazione giorno e notte, notte e giorno. Per tre giorni ha tentato di uscire dalla propria stanza, adeguatamente sorvegliata dagli operatori, per andare a distruggere tutto ciò che trovava e a colpire chiunque gli passasse davanti. Per tre giorni ha provato a recarsi in sala pranzo nei momenti dei pasti per avere la sua razione di piatti cucinati, invece che i panini che per tre interi giorni ha dovuto ingurgitare in camera, per evitare che in refettorio potesse colpire gli altri con le stoviglie e potesse rovesciare le vivande a terra o contro qualcuno. Tre giorni sono stati il tempo necessario per evacuare tutto il veleno che possedeva in animo, urlando, bestemmiando, sbattendo violentemente la testa contro le pareti e mordendo rabbiosamente il materasso, unico oggetto rimasto con cui sfogarsi. Gli operatori verso la fine dei tre giorni, non più fiduciosi nella mia scienza di ‘aria fritta’, cominciavano a chiedere, tra il serio e il faceto, l’intervento dell’esorcista. Qualcuno ha anche chiesto di poter intervenire a modo proprio, a me che li supplicavo di non reagire, assolutamente[1].

Sono trascorsi tre giorni e dopo qualcosa è cambiato: i periodi di quiete si sono allungati, ha cominciato a chiedere invece di esigere, e ha iniziato, anche se per brevi momenti, a scherzare nuovamente con gli altri. La rassegnazione di fronte all’immodificabilità della realtà cominciava a farsi strada.

Nel giro di pochi giorni la calma è diventata prevalente e Alessandro è tornato a comportarsi come quel bambinone che tutti abbiamo conosciuto nei momenti migliori. Abbiamo potuto restituirgli la radio e siamo in procinto di fargli avere anche il televisore. Gli operatori adesso sono più propensi a portarlo con loro nei momenti ricreativi fuori dalla comunità, gli altri ospiti cominciano a guardarlo con occhi meno paurosi e sembrano più disposti a stargli vicino.

Dopo circa due settimane dall’inizio dell’intervento, nessuno può prevedere cosa succederà e come Alessandro reagirà alle restrizioni cui è ancora sottoposto. Non possiamo immaginare al momento quale percorso seguirà la rabbia del paziente. Sappiamo bene che saranno necessari ancora mesi, forse anni, in cui dovremo proseguire rigorosamente con l’intervento intrapreso per sperare in un cambiamento significativo, sarà necessario dare grande importanza alla relazione e all’accoglimento di esigenze e richieste sane, ma forse i momenti peggiori sono alle spalle, forse qualcosa è cambiato definitivamente, se non nell’eliminazione, quantomeno nell’attenuazione dei sintomi. Forse il paziente ha incominciato a mettere in crisi la presunta onnipotenza e ad accettare di stare con gli altri in modo maggiormente realistico.

Guardo all’indietro a queste ultime tre settimane e penso che due anni sono stati necessari perché la comunità nel suo complesso, con tutti i suoi operatori, trovasse il coraggio di rispondere in modo maturo alla malattia del paziente. Non potevamo più permetterci contraddizioni tra operatori, ambiguità negli interventi o risposte abortite a metà per l’incapacità di tollerare la reazione violenta.  Abbiamo imparato che a nulla vale sforzarsi di apparire caritatevoli, spesso è solo un una copertura dell’invidia e dell’odio inconscio nei confronti degli assistiti. A nulla vale evitare il conflitto e tentare di convivere con la malattia. La psicosi è una mala bestia e va combattuta con interventi adeguati.

In questi giorni molte volte ci siamo mossi, io e gli operatori, ai limiti della legalità, la morale comune sarebbe stata pronta a darci addosso, accusandoci di disumanità –  se avessero saputo quanto stava accadendo. C’è troppa retorica sul disagio psichico, troppi film o serie tv raccontano una versione romantica delle difficoltà mentali e degli interventi necessari a farvi fronte. Certo, non si può prescindere dall’amore, l’accoglimento dei bisogni e dei desideri è prioritario, la basagliana liberazione delle catene indispensabile. Non avremmo potuto fare quello che abbiamo fatto se non avessimo avuto amore (interesse) per il paziente, ma per un buon intervento è altresì necessario contrastare duramente l’onnipotenza psicotica e accettare lo scontro che questo necessariamente comporta.

La mia formazione è psicoanalitica, è quella che si richiama alle teorie di Freud, Klein, Bion, Winnicott etc. Non ho ancora compreso che attinenza ci sia tra quello che abbiamo fatto in comunità e quello che studio da molti anni. Però so che nella mia lunga analisi mi sono trovato diverse volte ad essere frenato bruscamente nelle mie parti onnipotenti e capricciosamente avide. Ho tentato di fare in comunità quello che spesso ho sentito che l’analista stava facendo con me, ho cercato di tradurre il contenimento dell’analisi, fatto di setting, parole e pensieri, in azioni nei confronti del paziente.

Nelle fasi iniziali dell’intervento, vi sono stati alcuni frangenti in cui ho temuto che, a causa della mia ostinazione, avrei potuto provocare un disastro. Ma i dubbi pian piano si sono dissolti e  adesso penso di aver agito correttamente e di essermi fatto carico delle responsabilità del mio ruolo. Speriamo di essere sulla strada giusta.


[1] Winnicott sostiene che la distruttività del bambino è necessaria per oggettivare la realtà; a patto che la madre non ‘reagisca’.

15 pensieri su “Storia clinica in una comunità terapeutica per psicotici

  1. Il fatto di cui si parla è avvenuto realmente? L’autore ha usato uno pseudonimo? Il testo apre molte possibilità di discussione, e fa sorgere in me diversi dubbi.

  2. la storia clinica è avvenuta realmente e mi sono sforzato di raccontarla nel modo più veritiero possibile. Ho usato uno pseudonimo per evitare che fosse possibile identificare i protagonisti.
    Quali dubbi ti sorgono, quali discussioni ti stimolano?

  3. Caro Vilfredo, ti ringrazio per i chiarimenti. Premetto che da circa trentacinque anni sono interessato al problema psichiatrico. Ho incontrato Laing (nel 1980 ho partecipato anche a un workshop esperienziale sulla nascita da lui guidato), Cooper, Schatzman, Esterson, Szasz, Basaglia, Jervis, ecc., letto molti loro libri, ho studiato con una psicologa dell’équipe basagliana, Letizia Comba (un suo saggio è presente anche nel famoso libro collettivo “L’istituzione negata”), sono stato interessato a Wilhelm Reich e ai successivi sviluppi dei suoi studi in bioenergetica, ho seguito per molti anni i lavori di “Psichiatria democratica” attraverso la rivista “Fogli di informazione”, ecc. ecc.
    Dalla storia che racconti traspare una tua grande passione umana, oltre che una solida preparazione professionale. E spero che davvero Alessandro sia rinato. Mi ha molto colpito il seguente passaggio:
    “Abbiamo imparato che a nulla vale sforzarsi di apparire caritatevoli, spesso è solo una copertura dell’invidia e dell’odio inconscio nei confronti degli assistiti.” E anche della paura, aggiungerei io.
    In una conferenza tenuta a Roma da Laing, egli disse anche (cito a memoria):
    “In questo periodo sto seguendo dei corsi per apprendere le arti marziali. Non voglio affrontare un paziente che potrebbe manifestare accessi di violenza fisica con dentro di me una sensazione di paura.”
    Inoltre aggiungi:
    “… è altresì necessario contrastare duramente l’onnipotenza psicotica e accettare lo scontro che questo necessariamente comporta.”
    Dunque, porre l’Altro sullo stesso piano, richiamarlo con un No deciso alle proprie responsabilità. Compito davvero difficile, poichè le persone che sono ammalati psicologicamente sono spesso trattati dalle proprie famiglie, per diversi motivi, quasi da neonati, e qualsiasi reponsabilità (capacità di risposta) viene inibita.
    Un paio di miei dubbi: nella tua storia il ruolo dei famigliari di Alessandro si comprende genericamente, ma non viene spiegato come essi si stiano comportando attualmente (con Alessandro, con i medici, ecc.); e non viene spiegato nemmeno se Alessandro assume adesso psicofarmaci, e in caso affermativo, quali sono le intenzioni mediche – di cambiamento di dosaggio o di farmaco, cessazione dell’assunzione, o altro – rispetto alla nuova situazione. Ed ancora: Alessandro ha subito trattamenti con l’elettrochoc? E tu cosa ne pensi del trattamento della malattia mentale con psicofarmaci? E del ritorno in auge dell’elettrochoc (seppure in forma “più calibrata”) e d’un certo tipo d’organicismo? E infine, cosa ne pensi del “bipolarismo”, malattia psichica di recente conio, che sembra oggi così diffusa?
    Ti lascio l’indirizzo elettronico d’un mio racconto in tema, “Lo zio Pino”, che scaturisce da fatti del tutto reali, pubblicato su una rivista letteraria online (Faranews n. 94, ottobre 2007), qui:
    http://www.faraeditore.it/faranews/94.shtml
    Un caro saluto e mille grazie,
    Gaetano

  4. Mi scuso per alcuni errori presenti nel commento precedente (soggetto femminile che prosegue al maschile, refusi ed altri errori qui e là), ma ciò spesso capita nella scrittura “immediata” online.

  5. Caro Vilfredo, la voglia di commentare la storia clinica da te raccontata mi viene all’indomani della visione di un film, a mio parere importante, che é Shutter Island di Martin Scorsese. Così scarto e apro una linea di fuga verso una forma d’arte cara al liotro che é il cinema. Shutter Island é un buon film, uno Scorsese di alto livello. Se accetti di farti assalire da un po’ di “spettacolarizzazione” da grande produzione americana, scoprirai che la narrazione si articola su due piani, uno clinico-investigativo ed uno analitico. Dentro si racconta il disagio psichico, i traumi, il delirio di onnipotenza, lo scontro, la violenza. E a mettere in scena é Scorsese (mica un Muccino qualunque), con un cast di attori da brivido. Basta, vai a vederlo quando puoi e dimmi se ci trovi legami con la tua esperienza o se sono io ad essere in preda a un delirio.

  6. Le domande di Gaetano Failla aprirebbero risposte molto lunghe e complesse, cercherò invece di essere conciso, a discapito della completezza.

    La madre di Alessandro, unico familiare che lo segue, viene a trovarlo una domenica ogni due, lo porta fuori a pranzo e gli compra tutti i cd, dvd e musicassette che chiede, lo accontenta in tutto. Dall’inizio dell’intervento, le abbiamo chiesto di non portare più al figlio cose come indumenti intimi, spugne, cappotti, etc. cose di cui Alessandro è già strapieno. Con qualche difficoltà, ha seguito le indicazioni.

    Alessandro assume, come tutti i ricoverati nella struttura, terapia antipsicotica, che aveva avuto scarso effetto sui suoi sintomi. Dopo l’intervento non ho ancora discusso coi colleghi medici di possibili variazioni, ma comunque spetterà a loro l’ultima decisione.

    I farmaci sono, in alcuni casi di gravi psicosi, indispensabili per poter iniziare un intervento terapeutico grazie al fatto che attenuano o eliminano i sintomi più invasivi e disturbanti. Però, i farmaci riescono, talvolta, a ridurre i sintomi, ma non possono in nessun modo promuovere la crescita mentale o aggiustare danni e difetti evolutivi. Questo è compito della relazione terapeutica. Un altro problema dei farmaci è che, cancellando talvolta allucinazioni e deliri, non danno spazio alla possibilità di comprendere il significato delle produzioni sintomatologiche e di provare quindi ad analizzarle.

    Non so se in passato il paziente ha subito elettrochoc ma il suo utilizzo appartiene, a mio parere, alla sfera dei deliri terapeutici. Si sposta un problema che è di natura mentale, psichica, dell’anima cioè, sul versante organico e si crede terapeutico un trattamento che funziona per ben altri motivi da quelli in cui crede chi propone l’elettrochoc.( Vedi Winnicott sulla terapia elettroconvulsiva). Credo che simili trattamenti svelino più che la voglia di aiutare qualcuno, l’odio profondo della società nei confronti degli psicotici e verso lo sforzo necessario per capirli e cambiarli.
    Il disturbo bipolare, disagio psichico oggi molto diffuso, svela a mio parere l’incapacità dei pazienti a saper vivere una buona depressione e un sano senso di vuoto, incapacità che costringe i pazienti ad oscillare tra depressione patologica e mania, che è semplicemente la negazione della depressione.
    Spero di essere stato chiaro ed esaustivo, vado a vedere il tuo racconto.
    Ti ringrazio per i complimenti

    Ringrazio bruni per il suggerimento, se è il bruni di parigi, ne approfitto per dirgli che mi manca tanto.

  7. Ciao sono Andrea

    Ho letto il racconto e lo trovo molto bello ed ,essendo in un certo senso uno sfogo, anche utile;
    Credo che poter scrivere del disagio sia uno strumento di un’utilità incredibile per riuscire ad evitare che “lo sguardo dell’abisso” ti penetri nel profondo. Proprio per questo a mio avviso il corso di Arti Marziali di Laing rappresenta il riuscire a gestire la propria paura.

    Voglio riagganciarmi al sottotitolo “A tutti gli operatori che ci hanno creduto” chiedendoti cosa ti spinge ad usare il passato piuttosto che il presente.

    Al contrario del sottotitolo ci trovo molta forza d’animo e d’azione nel trattamento ed una fiducia di sottofondo nei mezzi che vengono usati;
    anche se questi non ti assicurano la certezza della riuscita (nonostante il tempo e gli accadimenti è proprio qui che devi essere sicuro di te)

    Rileggendo il passaggio “dell’inizio dell’intervento” mi è sembrato di rivivere la punizione di un genitore che non ne può più dei pasticci del figlio.Così lo punisce sottraendo i giocattoli. Chissà che questa rettifica non faccia il giusto effetto.

    Credo proprio manchi una figura in tutto questo: Il padre?

    Tralasciando il commento tecnico della materia (mancato passaggio dalla posizione kleiniana dalla schizo-paranoia a quella depressiva…mancanza dello spazio terzo.. attaccamento materno tipico dei tratti da anoressia restricter,la quale porta il mangiare anche in clinica alla bulimica (vedi cd,dvd che la madre portava)…uso di litio in terapia..ecc.)

    Continuerei a scrivere su ogni punto del tuo intenso racconto,mi ha colpito.
    Per me è solo un racconto,per te è la tua vita.

    Scusate gli errori e i pensieri se risultano confusi..ma come disse kerouac: “Non avevo niente da offrire a nessuno eccetto la mia
    stessa confusione.”

    Cari Saluti
    Andrea

  8. Grazie ancora Vilfredo. Trovo il tuo intervento in risposta alle mie domande chiaro ed esaustivo (considerando il mezzo comunicativo che abbiamo a disposizione), e mi sento in sintonia con il tuo punto di vista, nonostante l’impossibilità di rinchiudere l’argomento in questo schermo di computer. Un caro saluto e buon weekend.

  9. grazie mille per ciò che hai raccontato e deciso, insieme all’equipe, di vivere con questo “paziente” (parola che uso solo per esemplificare l’oggetto, e che non mi piace particolarmente :) ).
    ho lavorato per due anni in una comunità terapeutico riabilitativa, lavoro che ho amato moltissimo per tutto ciò che mi hanno insegnato i “pazienti”, per tutto ciò che mi hanno permesso di condividere con loro e ciò che mi hanno donato (il bene ed il male).
    alla fine sono andata via perchè purtroppo mi sono resa amaramente conto che ad essere malati non erano gli ospiti della ctr, ma i responsabili della struttura…
    quindi leggere le tue parole mi riempie il cuore di gioia nel sapere che c’è chi rischia per trovare nuove strade per poter aiutare o quanto meno cercare di migliorare la vita delle persone che si trovano ad affrontare la condizione dolorosa della malattia psichiatrica, nonostante le contingenti situazione economiche che caratterizzano la vita di una struttura del genere :)
    so bene sulla mia pelle quanto sia difficile trovare delle valide risposte in un gruppo equipe e rimanere uniti e compatti in una strategia di lavoro che non tutti a volte possono condividere.
    è bello sapere che c’è chi crede si possa fare qualcosa contro la cronicizzazione della malattia
    è bello sapere che c’è chi riesce a vedere l’essere umano prima della malattia, perchè è l’essere umano ad avere la malattia e spesso purtroppo c’è chi guarda solo alla malattia…
    grazie e buon lavoro!

  10. La storia di Vilfredo è la storia di come è stato affrontato un sintomo, la rabbia. In un libro dal titolo “Nutri i tuoi demoni”, nel quale si propone un approccio buddista al processo di individuazione di Jung, l’autrice sostiene che da ogni bisogno insoddisfatto del bambino scaturisce un demone, che può essere la vergogna, la depressione, la rabbia, ecc..Per riuscire a trasformare il demone nell’originario bisogno negato occorre nutrirlo e non combatterlo. Tutti noi lottiamo con i nostri demoni, le nostre paure, la nostra ombra e siamo talmente presi dalla lotta e dal nostro bisogno di mantenrli lontani dalla nostra coscienza che non pensiamo nemmeno alla possibilità di entrarci in contatto, figuriamoci di nutrirli.
    Ho fatto questa breve premessa perché, appena letto larticolo, mi sono chiesta quale bisogno ci fosse dietro il demone di Alessandro.
    Non ci è dato sapere quale sia il suo vissuto familiare ma sappiamo dall’autore che Alessandro è stato “scaricato” da una struttura all’altra, che nessuno voleva prendersi cura di lui.
    Per inciso, della madre si sa solo che “non sapeva dire di no” e questo è troppo poco per sapere quale fosse il loro rapporto.
    Non si sa nulla sull’origine della rabbia, si sa solo che nessuno, prima del 4 febbraio, aveva avuto la voglia, diciamo così, di averci a che fare.
    Non essendo una esperta in materia, non avendo studi e teorie da confermare o negare, mi sento libera, a questo punto, di entrare nella storia liberamente, dicendo solo quello che è il mio pensiero, scusandomi preventivamente, con chi è invece competente, per la semplicità delle considerazioni che seguiranno.
    Leggendo la storia di Alessandro mi sono immaginata la struttura sanitaria, nelle persone degli operatori che a vario titolo vi lavorano, come una sorta di sostituto materno per cui, d’ora in poi, la chiamerò Madre struttura.
    Questa Madre struttura, in un primo momento, si è comportata come la madre reale e, per amore del quieto vivere o per timore delle reazioni, ha tutto sommato sopportato e dato una blanda acquiescenza alle richieste del paziente-figlio Alessandro.
    Il “bambinone”, come lo chiama Vilfredo, come ha sempre fatto, si è approfittato di questa tolleranza verso i propri sfoghi impersonando il ruolo del tiranno temuto da tutti.
    Nella mia esperienza di madre ho potuto constatare che nessun bambino vuol essere lasciato agire come tiranno assoluto. Il bambino vuol essere contenuto e guidato e si angoscia sentendo che è lui a comandare perché sa benissimo di non essere in grado di farlo.
    Ecco dunque che finalmente Madre struttura, un bel giorno, decide di far capire ad Alessandro che non è lui che comanda, che c’é qualcuno che lo può guidare ed aiutare.
    E non solo.
    Sono rimasta colpita dal fatto che nella stanza di Alessandro vi fossero tanti elementi escretori (muco, cacca, pipì), che i genitori, fin da piccoli, ci insegnano ad eliminare e a non toccare in quanto nostri prodotti di scarto.
    Il “bambinone”, invece, ci viveva in mezzo come se non sapesse non solo distinguere il buono dal cattivo ma anche l’interno dall’esterno, l’io da ciò che è prodotto dall’io e dunque è “altro” da sè.
    Alessandro forse non ha confini definiti nella propria psiche dove affiorano nel conscio, senza alcun filtro protettivo, contenuti inconsci terrificanti.
    Al di là di queste mie considerazioni da men che non addetta ai lavori, sta di fatto che Madre struttura ha svolto anche questo ruolo diciamo “educativo”, andando a ripulire e ad insegnare che ciò che scartiamo diventa altro da noi e va eliminato e non trattenuto.
    Da madre, però, io a questo punto mi chiederei, al di là del sintomo espresso, quale sia il bisogno che spinge Alessandro a tirare gli oggetti addosso alle persone e sfuriare con tanta foga.
    Sicuramente, da madre, mi risponderei che il bambino vuole attenzione, vuole relazionarsi e ne ha un bisogno spaventoso.
    Pensando di non valere niente per gli altri, che non lo degnano di attenzione, allora li colpisce.
    Ecco che il bisogno negato si trasforma nel demone.
    Madre struttura però, questa volta, ha ascoltato il grido di solitudine dietro le ire del demone e si è presentata, unita e al gran completo, non per distruggerlo ma per nutrirlo con l’attenzione che nessuno si era mai preso la briga di dargli.
    Il demone così ha iniziato a cambiare aspetto, è divenuto via via meno terrorizzante e spaventoso e il tanto temuto/desiderato rapporto con l’altro è iniziato a fiorire.
    Se fossi io Madre struttura, a questo punto, dopo aver restituito ad Alessandro gli oggetti ai quali è affezionato, gli regalerei una radio nuova.
    Per rafforzare il suo cammino con un gesto gratuito, non richiesto e non preteso ma offerto. Perché una madre non può limitarsi a contenere o ad educare ma deve trasmettere accettazione e amore.
    P.S.
    nei prossimi giorni mi leggerò bene il blog, grazie per avermelo segnalato. un saluto con tanto affetto ad ale e peppe e relative signore
    nonché all’autore and family. sabrina

  11. Sono la madre di un ragazzo colpito nel 2007 da un importante quanto imprevisto screzio psicotico…Mio figlio ha avuto da sempre un carattere particolare dal punto di vista dell’affettività;desideroso di conferme da parte mia come di suo padre,quindi di base piuttosto insicuro,traduceva spesso queste sue insicurezze in atteggiamenti contrastanti:cercava aiuto per essere tranquillo ,per avere la certezza di risultati positivi,ma non lo faceva in modo manifesto,anzi,diceva solo che voleva questo aiuto per pigrizia,per far prima…ed eccedeva in autoreferenzialità per dimostrare al contrario di essere bravo in tutto..Mi spiego meglio:in terza media si iscrisse a gare di nuoto e di sci senza sapere veramente nè nuotare nè sciare (aveva solo seguito da piccolo alcune lezioni di acquaticità e aveva provato una o due volte gli sci su un campino in montagna) ,poi per salvarsi,pur affermando che se la sarebbe cavata lo stesso,ci chiese se lo potevamo portare ad esercitarsi sia con gli sci che in piscina…Noi ci siamo sforzati di spiegargli che per sostenere una gara avrebbe dovuto “frequentare” più assiduamente i due sport come facevano da anni altri compagni,mentre lui aveva scelto il calcio come sport principale…Alle gare arrivò ultimo…ma questo suo atteggiamento persisteva anche se non in modo pervasivo,da preoccupare…Io sono insegnante e di alunni un pò egocentrici e presuntuosi nella prima età adolescenziale ne ho conosciuti tanti..Poi ci si evolve,si matura,queste caratteristiche si attenuano..Così sarebbe accaduto anche a lui,pensavamo..Lo stesso dicasi per l’esclusività nelle amicizie:si innamorava letteralmente di un amico,diventava il suo idolo,lo adorava e pretendeva in cambio che questa amicizia diventasse esclusiva,solo sua…ma anche di questi atteggiamenti nei primi rapporti sociali se ne possono ritovare molti…Potrei andare avanti ma credo di aver reso l’idea.A parte questo carattere un pò particolare,da altri punti di vista la sua crescita è stata assolutamente regolare,normale…Poi è arrivato il divorzio fra me e suo padre.Inizialmenta ha dimostrato di accettarlo (aveva 15 anni circa),poi ha iniziato a rifugiarsi troppo in amicizie poco sane che io e suo padre non abbiamo saputo tempestivamente individuare,anche perchè lui aveva imparato ad utilizzare la separazione e il fatto che io e il mio ex marito vivevamo in località diverse anche se non troppo lontane per sfuggire alla maglia dei nostri controlli..Da qui l’abbandono del liceo classico per andare a lavorare e….e poi potrei scrivere un libro ma mi devo fermare…Ho introdotto la storia perchè da queste premesse di un ragazzino molto amato ma assai fragile,in difficoltà con se stesso e con gli altri,che ha subito un divorzio in un momento difficile della sua crescita…è nato lentamemte un disturbo della personalità…E’ stata la psicosi però con la sua brutalità ad aprirci gli occhi,perchè apparentemente,per alcuni anni,mio figlio si appalesava come il solito ragazzo confuso,in contrasto di ribellione nei confronti dei genitori,assertore di un’autonomia fasulla perchè totalmente dipendente da noi,in cerca di un suo posto nel mondo che non riusciva a capire quale dovesse essere e insofferente ad ogni tipo di consiglio…Lui è diverso dal ragazzo del racconto,anche se quando sta male l’igiene personale diventa carente..Non è violento fisicamente,lo può essere verbalmente se entri in contrasto diretto..Il suo problema è lo sviluppo di fantasie malate che possono diventare ossessive,che lo portano ad un ribaltamento delle ore di sonno e di veglia,che lo portano a mangiare in modo grossolanamente disorganizzato,che comunque lo allontanano da ogni tipo di progettualità reale…E tralascio altri particolari..Quello che mi ha colpito del racconto e che mi coinvolge direttamente,pur nella diversità del disturbo psicotico,è la relazione terapeutica e l’affermazione che i medicinali tolgono la possibilità di pervenire alla consapevolezza del disturbo da parte del paziente:Dal 2007 combattiamo io e il mio ex marito una battaglia durissima..Dopo incredibili e varie vicissitudini che non posso raccontare,ora mio figlio è in una comunità terapeutica,l’unica della nostra zona e assolutamente inadeguata a trattare un disturbo tanto complesso (inutilmente ci affanniamo a cercare nella usl di competenza l’aiuto per appoggiarci a strutture più specialistiche che abbiamo individuato fuori regione…pastoie amministrative sulla pelle dei malati e delle loro famiglie) dove dopo tanti tentativi falliti e battaglie,si era pervenuti un anno fa ad una cura più efficace,che era riuscita a “ridarci” nostro figlio libero da ossessioni,con nuova voglia di pensare alla sua vita..Abbiamo chiesto a quel punto l’applicazione del “doppio binario”,cioè di affiancare alle medicine azioni e strategie per la conquista della consapevolezza e almeno l’inizio di uno studio sulle possibili cause del disturbo..Niente da fare..Crogiolandosi nei risultati raggiunti si è temporeggiato,rimandato(noi pensiamo che manchino i modi e le persone per aprire quel percorso),continuando sempre e solo coi farmaci..DEvo dire che in questo periodo di benessere mio figlio ha fequentato una scuola serale riuscendo a prendere il diploma di un terzo anno professionale,è riuscito a ricostruire una buona affettività con noi genitori e i nostri rispettivi compagni,ha riallacciato vecchie amicizie…MA…c’è un MA grande come una casa…a questo punto(e purtroppo era già capitato!!) lui che vive inconsapevolmente il suo disturbo,sentendosi bene,non attribuisce questo bene all’assunzione dei farmaci,njon è aiutato da nessuno ad analizzare i molti fatti accaduti nè viene supportato per modificare alcune modalità che se pur molto attenuate permangono come una cura dell’igiene personale e della sua camera da incentivare ulteriormente,il troppo dormire di giorno a discapito del riposo notturno..ed alto ancora.Sentendosi bene minimizza quello che gli è accaduto,dice che non ha avuto screzi psicotici ma solo periodi di crisi passeggere,che non ne avrà più..e inizia a chiedere la diminuzione delle medicine…I medici o per meglio dire il suo medico di riferimento accetta il patteggiamento…la diminuzione…Noi siamo allarmati e chiediamo di non farlo,anzi..,come ho già detto di continuare ed affiancare ai farmaci una relazione terapeutica vera e più intensa…Oggi mio figlio che ha cessato del tutto i farmaci e non ha ricevuto altro supporto è in piena ricaduta psicotica..Doveva avere un inserimento lavorativo ed il passaggio ad un appartamento protetto…Tutto fallito..Da pochi giorni gli sono state “imposte” le medicine sotto “minaccia” di tso..ma lui adesso ce l’ha con tutti e soprattutto con noi…E’ arrabbiato e sofferente ed è un calvario che ricomincia per lui e tutti noi,con la grande paura: RIUSCIREMO A RIPORTARLO A NOI ANCORA UNA VOLTA?

  12. Salve, sono capitata per caso e in ritardo di tre anni su questo episodio. Non è il mio caso: mio figlio oggi sedicenne ebbe la Klebsiella pneumonia a 10 giorni dalla nascita ed è un disabile principalmente motorio (per la precisione leucomalacia periventricolare con esiti di doppia emiplegia sinistra). E’ in sedia a rotelle e ha recuperato molto grazie a riabilitazione dura e pura di stampo americano.
    Ma un disabilità così grave non passa liscia nell’anima e così da un pò di tempo assistiamo a delle crisi rabbiose, con autolesionismo (si da schiaffi e si morde la mano) e urli e accuse contro medici, insegnanti, AEC, il padre ma non me la madre, passati torti subiti, notti insonni passate ad ululare la sua disperazione. Verso i 7 anni erano due crisi l’anno, oggi siamo ad una a settimana per la durata di tre-otto giorni. Tre giorni di pace e poi ricomincia.
    Neuropsichiatri, anche dirigenti di Unità Complesse, ci hanno raccomandato di non dare carne, alimentazione leggera, di farlo divertire di più, di rimuovere i momenti di disagio etc etc.
    Uno, in particolare, appena sentito di Klebsiella Pneumonia e in quale ospedale ci ha liquidati alla svelta.
    Poiché mio figlio è l’unico sopravvissuto di quella pandemia che provocò cinque neonati morti e il reparto fu chiuso due mesi dopo, mi è venuto un sospetto. Ho controllato e… sospetto confermato.
    Perché ti scrivo? Perché a parte distruggere lavandini e non avere il senso dell’igiene, le crisi di rabbia sono simili.
    Mi chiedo se mio figlio non stia sviluppando anche lui una patologia come quella descritta di Alessandro e mi chiedo se non devo rendere più netto il mio comportamento per evitare la degenerazione. Qualche suggerimento? Qualche indirizzo?
    Grazie. Alexagdg@yahoo.it

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